La sveglia suonò per l’ennesima volta, e Gabriele fu seriamente tentato di posticiparla ancora di cinque minuti. Ma quando afferrò il telefono e cercò di mettere a fuoco il display, gli occhi appiccicosi di sonno, quasi gli venne un colpo. Era in ritardo.
Si alzò sbuffando e andò alla finestra per sollevare la tapparella. La stanza si illuminò immediatamente della luce tiepida del mattino, costringendolo a serrare le palpebre.
Nonostante fossero appena le sette, Gabriele sapeva che si prospettava un’altra giornata davvero calda. Per sua fortuna, i suoi genitori avevano fatto installare l’aria condizionata non appena si erano trasferiti in quella casa e lui non aveva mai dovuto patire le notti afose di Napoli. A dire la verità, era ancora soltanto la prima settimana di maggio, ma le previsioni prevedevano un’estate torrida e insopportabile, e lui non faticava a crederci: erano già due settimane che, a scuola, da metà mattina in poi si sudava come maiali. Persino lui, che amava studiare, si ritrovava a non vedere l’ora che le lezioni terminassero soltanto per poter tornare a casa e godersi la temperatura fresca.
Cercando di togliersi quel pensiero dalla testa andò in bagno a rinfrescarsi il viso, poi tornò nella stanza e scelse dall’armadio degli indumenti a caso: un paio di pantaloni neri e una camicia azzurrina a maniche corte, molto casual.
In cucina trovò sua madre, Sonia, che sorseggiava un bicchiere di spremuta mentre sfogliava la sua agenda.
«Buongiorno, ma’», la salutò diretto al frigo, dove prese il cartone del latte.
«Buongiorno, tesoro», rispose la donna, alzando gli occhi in direzione del figlio.
Al contrario di Gabriele, Sonia era vestita in modo fine ed elegante, forse quel giorno ancora più degli altri. Indossava una longuette nera che le fasciava i fianchi generosi della sua taglia 46 e da cui facevano capolino due gambe lunghe e affusolate; sopra portava una camicia bianca che le fasciava il seno abbondante, corredata da una giacca da ufficio nera. Ai piedi sfoggiava ballerine di vernice dello stesso colore che ne accentuavano le caviglie snelle.
«Come mai così… elegante?», chiese Gabriele notando il look della madre.
«Ho un’udienza in tribunale con un cliente molto importante», rispose Sonia con un sorriso. «Sto bene?»
«Sì, mamma…»
«Che c’è? Che cos’è quella faccia?», chiese la donna mettendosi in posizione eretta. «Non sembri tanto convinto.»
«Ma no», mormorò lui imbarazzato, cercando di guardare altrove. «Stai bene.»
Con la coda dell’occhio vide sua madre riporre l’agenda nella sua ventiquattr’ore.
«Vuoi un passaggio a scuola?», gli chiese.
Gabriele fu grato del cambio di argomento.
«No, prendo l’autobus.»
«A me sembri leggermente in ritardo», constatò la donna. «Sicuro di arrivare in tempo?»
Gabriele si costrinse a guardare l’orologio sopra al frigo. Effettivamente Sonia aveva ragione: era in ritardo. Se anche si fosse recato alla fermata e avesse avuto la fortuna di prendere al volo un autobus avrebbe faticato a raggiungere il liceo per le otto.
«Va bene, accetto il passaggio», dichiarò.
La donna gli sorrise genuinamente dall’alto del suo metro e settantacinque. Quando la guardava, Gabriele si chiedeva spesso come da una donna così interessante e aggraziata potesse essere nato lui, un gracile ragazzino goffo e noiosamente normale. La genetica era un vero mistero.
«Ti aspetto in macchina», disse a un certo punto Sonia, mentre Gabriele stava per terminare la colazione. «Non metterci troppo, devo essere in tribunale alle 8 e 30.»
«Arrivo», rispose lui a bocca piena, meritandosi un’occhiata truce dalla madre.
Mentre riponeva la tazza nel lavandino, Gabriele ricevette un messaggio. Era Alex, il suo migliore amico:
ALEX:
Uè, ma dove sei? Non ti ho visto alla fermata.
GABRIELE:
Mi sono svegliato tardi. Vengo con mia madre.
Rimise in tasca il cellulare e, zaino in spalla, uscì di casa. L’auto tirata a specchio di sua madre lo stava già aspettando in strada.
Gettò lo zaino nei sedili posteriori, poi andò a sedersi davanti e l’auto partì. Al contrario di quanto si diceva sulle donne, Sonia se la cavava egregiamente come autista. Gabriele trovava rilassante il suo stile di guida, per nulla scattoso come quello di suo padre che, invece, era sempre di fretta e non faceva altro che suonare il clacson e inchiodare a ogni incrocio.
Stare in auto con sua madre era un po’ come nelle scene dei film: finestrini abbassati, musica di sottofondo e un andamento regolare. Gabriele avrebbe potuto chiudere gli occhi e dormire durante il tragitto, se solo sua madre non avesse aperto bocca:
«I colloqui con i professori sono la settimana prossima, vero?»
Al solo pensiero Gabriele sentì il cuore mancare un battito. Non aveva poi molto di cui preoccuparsi, in fondo andava bene in praticamente tutte le materie, ma i colloqui scolastici non gli erano mai piaciuti per principio. Odiava l’idea che i suoi professori parlassero di lui in sua assenza, senza possibilità di dare la sua opinione o almeno sapere se stessero dicendo a sua madre la verità oppure no.
E poi, anche il più brillante degli studenti ha sempre qualche piccolo segreto da nascondere e che vuole rimanga tra le mura della scuola. Ad esempio, Gabriele non voleva che i suoi genitori sapessero che aveva gravi problemi con i bulli. Suo padre, tutto d’un pezzo com’era, gli avrebbe dato del rammollito e avrebbe riso di lui, se l’avesse saputo. Un figlio di facoltosi avvocati che si faceva maltrattare da dei delinquenti senza nemmeno provare a reagire? Sembrava una barzelletta.
«Gabri, mi ha sentita?»
La voce soffice di sua madre lo risvegliò da quello scenario tetro che si era figurato nella testa.
«Sì, scusa, ero sovrappensiero.»
«Di che giorno sono i colloqui?», ripeté. «Devo prendermi la giornata libera?»
«Martedì alle nove e mezzo, disse lui, ricordando a memoria gli orari scritti sulla circolare che era stata distribuita la settimana prima.
«Nove e mezzo. D’accordo… », rispose Sonia riflettendo. «Mi basterà la mattina. Tu finisci alle dodici, giusto?»
«Dodici e un quarto»
«Che ne dici di aspettarmi? Visto che tuo padre non c’è, potremmo passare a prendere un pollo allo spiedo con le patatine fritte e pranzare insieme. Ti va?»
Gabriele annuì convinto. «Sì, okay. È una vita che non prendiamo il pollo.»
«Ottimo.»
Ormai erano quasi arrivati davanti alla scuola di Gabriele, quando quest’ultimo notò Alex che camminava da solo lungo il marciapiede.
«Fermati qui, c’è Alex», disse a sua madre. «Uè, Alex!», aggiunse urlando fuori dal finestrino, e il ragazzo si voltò nella loro direzione.
Sonia sollevò le sopracciglia scure e perfettamente arcuate. «Dovrei fermarmi in mezzo alla strada?»
«Dai, non c’è nessuno dietro!»
Sonia guardò nello specchietto retrovisore, e dopo essersi accertata di non avere altre macchine al seguito si fermò sul ciglio della strada.
«Ciao, tesoro. Buona scuola», salutò il figlio, schioccandogli un bacio sulla guancia.
Gabriele arrossì per quello slancio improvviso d’affetto, sicuro che Alex li avesse notati.
«Ciao», rispose sbrigativo, scendendo dall’auto. Recuperò il suo zaino e senza aggiungere altro si allontanò in direzione dell’amico.
«Che dolci», commentò Alex dando una pacca amichevole a Gabriele.
L’altro scrollò le spalle, le guance ancora livide per l’imbarazzo. «Dai, muoviamoci.»
«Oh, quanto darei per averlo io, un bacio da tua madre…», cantilenò Alex, passando un braccio tappezzato di tatuaggi dietro le spalle di Gabriele. La sua pelle scura era in netto contrasto con il colorito pallido dell’amico, che aveva la tipica carnagione di chi, se esposto al sole, non può far altro che diventare un’aragosta.
Gabriele era sempre stato un po’ geloso della pelle scura e liscia di Alex, così come del fisico scolpito che lui non avrebbe mai avuto la voglia di costruirsi. Alex era un fanatico della palestra, si poteva dire che passasse più tempo ad allenarsi che a studiare, e questo rifletteva perfettamente i suoi pessimi voti scolastici. Però, fuori dai banchi, Alex era indubbiamente un ragazzo interessante. Era arrivato dall’Africa insieme alla sua famiglia quando era ancora solo un bambino, scappando dalla miseria come molti. Ma nonostante le umili origini, crescendo aveva lavorato molto su sé stesso ed ora aveva tutte le carte in regola per essere il sogno di qualunque ragazza della scuola: i tratti tipicamente africani contrastavano con gli occhi azzurri come il cielo in tempesta; le labbra carnose facevano da cornice a due file di denti bianchissimi e perfettamente allineati; le spalle larghe, il petto gonfio e le vene in rilievo su braccia e gambe dalla pelle nera come l’inchiostro gli attribuivano un’aura ultraterrena.
Aveva un carattere irruento e a tratti difficile, ma Gabriele aveva avuto modo di conoscere il suo lato buono ed altruista: quando aveva bisogno di lui, Alex era sempre stato lì, pronto a difenderlo e regolare i conti con chi se la prendeva con lui.
Nei bagni delle ragazze si sussurrava che nemmeno sotto i pantaloni Alex deludesse le aspettative, e che oltretutto fosse davvero bravo nelle arti amatorie. In fondo, doveva esserci un motivo se era riuscito a portarsi a letto la metà del corpo studentesco femminile, e forse anche qualche professoressa. E se Gabriele ci pensava, in un universo in cui sua madre non fosse stata sposata con suo padre forse Alex sarebbe riuscito a portarsi a letto pure lei.
A quell’idea aggrottò le sopracciglia e scosse la testa, cercando di togliersi dalla mente l’immagine di sua madre che cedeva alle avance di Alex.
«Smettila, idiota», si sentì pronunciare.
Alex sollevò gli occhi al cielo, le mani aggrappate agli spallacci dello zaino che, dal modo in cui era accartocciato su sé stesso, doveva essere vuoto. «Dai, Gabri, si scherza!», esclamò.
Gabriele sentì qualcosa agitarsi nello stomaco, simile ad un moto di panico, e prima che potesse pensarci si sentì pronunciare: «Alex, cosa ne pensi davvero di mia madre?»
Il ragazzo strabuzzò gli occhi. «Che razza di domanda è?»
«Una domanda semplicissima», rincarò Gabriele. «Come la trovi?»
«Be’, è indubbiamente una donna molto affascinante, e intrigante, e bellissima e…»
Gabriele lo fissò con un’intensità tale che sembrava volesse guardargli attraverso.
«...ma è di tua madre che stiamo parlando. E a dire la verità questa conversazione mi sta mettendo alquanto a disagio.»
Quelle parole lo confortarono. «Grazie. Scusa, ma dovevo chiedertelo.»
Mancavano solo una manciata di passi prima di attraversare i cancelli della scuola, e Gabriele si ricordò della conversazione con sua madre in auto.
«Tu come sei messo con i colloqui?», chiese ad Alex.
«Uno schifo, naturalmente», rispose lui con una scrollata di spalle. «Il che è un bel casino, perché mia madre ha giurato di annullarmi l’iscrizione alla palestra se ho più di due insufficienze.»
«Bella merda.»
«Già.»
«Senti, Gabri», incominciò Alex, mettendosi a camminare all’indietro per guardare l’amico negli occhi. «Ho ancora una possibilità. Ho chiesto al prof di letteratura di interrogarmi questo giovedì. Se prendessi almeno un sette riuscirei ad alzarmi la media. E così le insufficienze sarebbero soltanto due...»
«Fammi indovinare: vuoi che ti aiuti», rispose Gabriele sorridendo di sbieco.
«Dai amico, tu sei un cazzo di genio in letteratura! Giuro che se mi aiuti farò qualunque cosa mi chiederai.»
Gabriele ci pensò su. «Mi piacerebbe, lo sai, ma è un periodaccio… Devo prepararmi per la verifica di mate…»
«Per favore!», lo scongiurò l’altro. «Io ti copro sempre il culo, quando serve.»
«Okay, va bene, hai vinto tu», concluse Gabriele con un sospiro. «Oggi pomeriggio puoi venire a casa mia.»
«Grande!»
Continua......
Si alzò sbuffando e andò alla finestra per sollevare la tapparella. La stanza si illuminò immediatamente della luce tiepida del mattino, costringendolo a serrare le palpebre.
Nonostante fossero appena le sette, Gabriele sapeva che si prospettava un’altra giornata davvero calda. Per sua fortuna, i suoi genitori avevano fatto installare l’aria condizionata non appena si erano trasferiti in quella casa e lui non aveva mai dovuto patire le notti afose di Napoli. A dire la verità, era ancora soltanto la prima settimana di maggio, ma le previsioni prevedevano un’estate torrida e insopportabile, e lui non faticava a crederci: erano già due settimane che, a scuola, da metà mattina in poi si sudava come maiali. Persino lui, che amava studiare, si ritrovava a non vedere l’ora che le lezioni terminassero soltanto per poter tornare a casa e godersi la temperatura fresca.
Cercando di togliersi quel pensiero dalla testa andò in bagno a rinfrescarsi il viso, poi tornò nella stanza e scelse dall’armadio degli indumenti a caso: un paio di pantaloni neri e una camicia azzurrina a maniche corte, molto casual.
In cucina trovò sua madre, Sonia, che sorseggiava un bicchiere di spremuta mentre sfogliava la sua agenda.
«Buongiorno, ma’», la salutò diretto al frigo, dove prese il cartone del latte.
«Buongiorno, tesoro», rispose la donna, alzando gli occhi in direzione del figlio.
Al contrario di Gabriele, Sonia era vestita in modo fine ed elegante, forse quel giorno ancora più degli altri. Indossava una longuette nera che le fasciava i fianchi generosi della sua taglia 46 e da cui facevano capolino due gambe lunghe e affusolate; sopra portava una camicia bianca che le fasciava il seno abbondante, corredata da una giacca da ufficio nera. Ai piedi sfoggiava ballerine di vernice dello stesso colore che ne accentuavano le caviglie snelle.
«Come mai così… elegante?», chiese Gabriele notando il look della madre.
«Ho un’udienza in tribunale con un cliente molto importante», rispose Sonia con un sorriso. «Sto bene?»
«Sì, mamma…»
«Che c’è? Che cos’è quella faccia?», chiese la donna mettendosi in posizione eretta. «Non sembri tanto convinto.»
«Ma no», mormorò lui imbarazzato, cercando di guardare altrove. «Stai bene.»
Con la coda dell’occhio vide sua madre riporre l’agenda nella sua ventiquattr’ore.
«Vuoi un passaggio a scuola?», gli chiese.
Gabriele fu grato del cambio di argomento.
«No, prendo l’autobus.»
«A me sembri leggermente in ritardo», constatò la donna. «Sicuro di arrivare in tempo?»
Gabriele si costrinse a guardare l’orologio sopra al frigo. Effettivamente Sonia aveva ragione: era in ritardo. Se anche si fosse recato alla fermata e avesse avuto la fortuna di prendere al volo un autobus avrebbe faticato a raggiungere il liceo per le otto.
«Va bene, accetto il passaggio», dichiarò.
La donna gli sorrise genuinamente dall’alto del suo metro e settantacinque. Quando la guardava, Gabriele si chiedeva spesso come da una donna così interessante e aggraziata potesse essere nato lui, un gracile ragazzino goffo e noiosamente normale. La genetica era un vero mistero.
«Ti aspetto in macchina», disse a un certo punto Sonia, mentre Gabriele stava per terminare la colazione. «Non metterci troppo, devo essere in tribunale alle 8 e 30.»
«Arrivo», rispose lui a bocca piena, meritandosi un’occhiata truce dalla madre.
Mentre riponeva la tazza nel lavandino, Gabriele ricevette un messaggio. Era Alex, il suo migliore amico:
ALEX:
Uè, ma dove sei? Non ti ho visto alla fermata.
GABRIELE:
Mi sono svegliato tardi. Vengo con mia madre.
Rimise in tasca il cellulare e, zaino in spalla, uscì di casa. L’auto tirata a specchio di sua madre lo stava già aspettando in strada.
Gettò lo zaino nei sedili posteriori, poi andò a sedersi davanti e l’auto partì. Al contrario di quanto si diceva sulle donne, Sonia se la cavava egregiamente come autista. Gabriele trovava rilassante il suo stile di guida, per nulla scattoso come quello di suo padre che, invece, era sempre di fretta e non faceva altro che suonare il clacson e inchiodare a ogni incrocio.
Stare in auto con sua madre era un po’ come nelle scene dei film: finestrini abbassati, musica di sottofondo e un andamento regolare. Gabriele avrebbe potuto chiudere gli occhi e dormire durante il tragitto, se solo sua madre non avesse aperto bocca:
«I colloqui con i professori sono la settimana prossima, vero?»
Al solo pensiero Gabriele sentì il cuore mancare un battito. Non aveva poi molto di cui preoccuparsi, in fondo andava bene in praticamente tutte le materie, ma i colloqui scolastici non gli erano mai piaciuti per principio. Odiava l’idea che i suoi professori parlassero di lui in sua assenza, senza possibilità di dare la sua opinione o almeno sapere se stessero dicendo a sua madre la verità oppure no.
E poi, anche il più brillante degli studenti ha sempre qualche piccolo segreto da nascondere e che vuole rimanga tra le mura della scuola. Ad esempio, Gabriele non voleva che i suoi genitori sapessero che aveva gravi problemi con i bulli. Suo padre, tutto d’un pezzo com’era, gli avrebbe dato del rammollito e avrebbe riso di lui, se l’avesse saputo. Un figlio di facoltosi avvocati che si faceva maltrattare da dei delinquenti senza nemmeno provare a reagire? Sembrava una barzelletta.
«Gabri, mi ha sentita?»
La voce soffice di sua madre lo risvegliò da quello scenario tetro che si era figurato nella testa.
«Sì, scusa, ero sovrappensiero.»
«Di che giorno sono i colloqui?», ripeté. «Devo prendermi la giornata libera?»
«Martedì alle nove e mezzo, disse lui, ricordando a memoria gli orari scritti sulla circolare che era stata distribuita la settimana prima.
«Nove e mezzo. D’accordo… », rispose Sonia riflettendo. «Mi basterà la mattina. Tu finisci alle dodici, giusto?»
«Dodici e un quarto»
«Che ne dici di aspettarmi? Visto che tuo padre non c’è, potremmo passare a prendere un pollo allo spiedo con le patatine fritte e pranzare insieme. Ti va?»
Gabriele annuì convinto. «Sì, okay. È una vita che non prendiamo il pollo.»
«Ottimo.»
Ormai erano quasi arrivati davanti alla scuola di Gabriele, quando quest’ultimo notò Alex che camminava da solo lungo il marciapiede.
«Fermati qui, c’è Alex», disse a sua madre. «Uè, Alex!», aggiunse urlando fuori dal finestrino, e il ragazzo si voltò nella loro direzione.
Sonia sollevò le sopracciglia scure e perfettamente arcuate. «Dovrei fermarmi in mezzo alla strada?»
«Dai, non c’è nessuno dietro!»
Sonia guardò nello specchietto retrovisore, e dopo essersi accertata di non avere altre macchine al seguito si fermò sul ciglio della strada.
«Ciao, tesoro. Buona scuola», salutò il figlio, schioccandogli un bacio sulla guancia.
Gabriele arrossì per quello slancio improvviso d’affetto, sicuro che Alex li avesse notati.
«Ciao», rispose sbrigativo, scendendo dall’auto. Recuperò il suo zaino e senza aggiungere altro si allontanò in direzione dell’amico.
«Che dolci», commentò Alex dando una pacca amichevole a Gabriele.
L’altro scrollò le spalle, le guance ancora livide per l’imbarazzo. «Dai, muoviamoci.»
«Oh, quanto darei per averlo io, un bacio da tua madre…», cantilenò Alex, passando un braccio tappezzato di tatuaggi dietro le spalle di Gabriele. La sua pelle scura era in netto contrasto con il colorito pallido dell’amico, che aveva la tipica carnagione di chi, se esposto al sole, non può far altro che diventare un’aragosta.
Gabriele era sempre stato un po’ geloso della pelle scura e liscia di Alex, così come del fisico scolpito che lui non avrebbe mai avuto la voglia di costruirsi. Alex era un fanatico della palestra, si poteva dire che passasse più tempo ad allenarsi che a studiare, e questo rifletteva perfettamente i suoi pessimi voti scolastici. Però, fuori dai banchi, Alex era indubbiamente un ragazzo interessante. Era arrivato dall’Africa insieme alla sua famiglia quando era ancora solo un bambino, scappando dalla miseria come molti. Ma nonostante le umili origini, crescendo aveva lavorato molto su sé stesso ed ora aveva tutte le carte in regola per essere il sogno di qualunque ragazza della scuola: i tratti tipicamente africani contrastavano con gli occhi azzurri come il cielo in tempesta; le labbra carnose facevano da cornice a due file di denti bianchissimi e perfettamente allineati; le spalle larghe, il petto gonfio e le vene in rilievo su braccia e gambe dalla pelle nera come l’inchiostro gli attribuivano un’aura ultraterrena.
Aveva un carattere irruento e a tratti difficile, ma Gabriele aveva avuto modo di conoscere il suo lato buono ed altruista: quando aveva bisogno di lui, Alex era sempre stato lì, pronto a difenderlo e regolare i conti con chi se la prendeva con lui.
Nei bagni delle ragazze si sussurrava che nemmeno sotto i pantaloni Alex deludesse le aspettative, e che oltretutto fosse davvero bravo nelle arti amatorie. In fondo, doveva esserci un motivo se era riuscito a portarsi a letto la metà del corpo studentesco femminile, e forse anche qualche professoressa. E se Gabriele ci pensava, in un universo in cui sua madre non fosse stata sposata con suo padre forse Alex sarebbe riuscito a portarsi a letto pure lei.
A quell’idea aggrottò le sopracciglia e scosse la testa, cercando di togliersi dalla mente l’immagine di sua madre che cedeva alle avance di Alex.
«Smettila, idiota», si sentì pronunciare.
Alex sollevò gli occhi al cielo, le mani aggrappate agli spallacci dello zaino che, dal modo in cui era accartocciato su sé stesso, doveva essere vuoto. «Dai, Gabri, si scherza!», esclamò.
Gabriele sentì qualcosa agitarsi nello stomaco, simile ad un moto di panico, e prima che potesse pensarci si sentì pronunciare: «Alex, cosa ne pensi davvero di mia madre?»
Il ragazzo strabuzzò gli occhi. «Che razza di domanda è?»
«Una domanda semplicissima», rincarò Gabriele. «Come la trovi?»
«Be’, è indubbiamente una donna molto affascinante, e intrigante, e bellissima e…»
Gabriele lo fissò con un’intensità tale che sembrava volesse guardargli attraverso.
«...ma è di tua madre che stiamo parlando. E a dire la verità questa conversazione mi sta mettendo alquanto a disagio.»
Quelle parole lo confortarono. «Grazie. Scusa, ma dovevo chiedertelo.»
Mancavano solo una manciata di passi prima di attraversare i cancelli della scuola, e Gabriele si ricordò della conversazione con sua madre in auto.
«Tu come sei messo con i colloqui?», chiese ad Alex.
«Uno schifo, naturalmente», rispose lui con una scrollata di spalle. «Il che è un bel casino, perché mia madre ha giurato di annullarmi l’iscrizione alla palestra se ho più di due insufficienze.»
«Bella merda.»
«Già.»
«Senti, Gabri», incominciò Alex, mettendosi a camminare all’indietro per guardare l’amico negli occhi. «Ho ancora una possibilità. Ho chiesto al prof di letteratura di interrogarmi questo giovedì. Se prendessi almeno un sette riuscirei ad alzarmi la media. E così le insufficienze sarebbero soltanto due...»
«Fammi indovinare: vuoi che ti aiuti», rispose Gabriele sorridendo di sbieco.
«Dai amico, tu sei un cazzo di genio in letteratura! Giuro che se mi aiuti farò qualunque cosa mi chiederai.»
Gabriele ci pensò su. «Mi piacerebbe, lo sai, ma è un periodaccio… Devo prepararmi per la verifica di mate…»
«Per favore!», lo scongiurò l’altro. «Io ti copro sempre il culo, quando serve.»
«Okay, va bene, hai vinto tu», concluse Gabriele con un sospiro. «Oggi pomeriggio puoi venire a casa mia.»
«Grande!»
Continua......