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Ciao a tutti! Sto provando a scrivere una storia erotica un po' particolare, chiaramente di fantasia. E' un work in progress, spero possa piacere. Sono ben accetti pareri, anche negativi!
A sexy horror story
1.
La voce del tassista afferrò il giovane ingegnere per il colletto e lo tirò fuori dal pantano che era diventato quell’orrendo sogno. Quando si era addormentato?
Pochi dettagli confusi, residui maciullati di quell’illusione, gli attraversarono in un istante gli occhi annebbiati, per poi essere scacciati prontamente dall’improvvisa lucidità .
Marco allontanò di scatto la testa dal finestrino, come se questo fosse un orribile serpente che, da un momento all’altro, avrebbe potuto sferrare il suo micidiale e fulmineo attacco. Attraverso le righe lasciate dalle gocce di pioggia sul vetro, osservò la struttura nera scagliarsi contro la notte; si ergeva imponente come un patriarca che vegliava su una progenie non ancora nata: l’unico edificio del circondario. Il ragazzo pagò la corsa, abbandonò il tepore di quel rifugio temporaneo e s’addentrò nel freddo e nel buio, percorrendo lentamente il vialetto che l’avrebbe condotto all’ingresso dell’Hotel Mirafiori.
Guardò in alto, ammirando la costruzione. Da alcune finestre proveniva il bagliore di fioche luci, troppo poche, si disse, per un albergo di questa importanza. L’insegna al neon ronzava, inveendo e minacciando di spegnersi del tutto, una notte o l’altra. Richiuse l’ombrello, accertandosi di rimuovere le residue gocce di pioggia, e suonò il campanello per farsi aprire. Una debole scarica elettrica gli diede il permesso di addentrarsi nell’albergo.
Non era come l’aveva visto nel sito web: un pessimo odore di muffa e aria viziata inondava la hall, la tappezzeria alle pareti era logora e persino bucata in alcuni punti. Poche appliques, uniche sopravvissute in mezzo ai cadaveri delle compagne, illuminavano di biondo quella grande sala. Marco coprì a rapidi passi la distanza che lo separava dal bancone della reception, al momento priva del suo custode. Picchiò il dito contro l’ormai vetusto, seppur classico, campanellino, ma restò solo. Sospirò, sfilò gli occhiali, chiuse gli occhi per un attimo e li massaggiò, cercando di attenuare l’emicrania che era esplosa, come una mina, dopo aver attraversato la soglia dell’hotel.
- “Quindi? Chi sei?”
Quando era comparsa?
Di fronte a lui c’era una ragazza, non poteva avere più di venticinque anni. La targhetta appuntata sul petto gli comunicò il suo nome: Rebecca.
- “Signorina Rebecca…”
- “Chiamami Becca. Sei Marco, l’ingegnere, vero?”
Il ragazzo biasciò qualche parola, spiazzato, poi si rese conto che forse quella sera aspettavano solo lui. Come potevano sapere, altrimenti, chi fosse?
- “Sì, sono qui per una trasferta di lavoro e…”
- “Sappiamo già tutto!” replicò la ragazza.
Aprì un grosso libro e sfogliò le pagine. Marco la guardò, studiandone i movimenti felini e le lunghe dita affusolate. Si soffermò per un po’ su dettagli più carnali; ne ammirò il seno abbondante, le labbra carnose prive di rossetto e il collo sottile, rovinato da una lunga cicatrice che bivaccava perpendicolarmente alla sua base. Becca dovette accorgersi dello sguardo del ragazzo, perché si affrettò ad abbottonarsi il colletto, sorridendo. Le porse le sue scuse, ma lei gli disse di non preoccuparsi. La receptionist si voltò per recuperare la chiave della stanza, Marco quasi giurò di averla vista sfarfallare per un attimo e sparire dalla scena. Diede la colpa all’emicrania e, recuperati i tiranti che lo tenevano ancorato alla realtà , afferrò la chiave che Rebecca gli stava porgendo.
- “Ci sono tanti ospiti, stasera?”
- “I soliti… perché? Sei interessato a conoscere qualcuno… o qualcuna?” ammiccò, facendogli l’occhiolino e portando pollice e indice a slacciare l’ultimo bottone della blusa.
Marco fissò quel movimento, quasi ipnotizzato, e seguì con interesse quelli successivi. Il bottone poco più in alto imitò il compagno, quello successivo s’accordò con l’asola per una separazione consensuale. L’ombelico fece capolino, piccolo e poco profondo alla base di quello che sembrava essere un ventre snello e appena muscoloso.
- “Continuo? Ti vedo agitato.”
Effettivamente, era arrossito. Deglutì il nulla un paio di volte, la salivazione azzerata e la bocca secca gli impedirono di irrorare la gola.
- “N… no… ecco… ecco” balbettò, “… è che io non ho mai… cioè, non ho mai visto dal vivo…”
- “Lo so, sei vergine!”, affermò la receptionist.
- “Come lo sai?”
Sul serio aveva posto quella domanda? Il suo aspetto quasi parlava per lui: aveva ventisette anni, ma ne mostrava almeno una decina in piĂą. Era stempiato, grassoccio e flaccido. Soprattutto, era molto insicuro.
Si sfilò gli occhiali e iniziò a pulirli con un fazzoletto, evitando di guardare la ragazza negli occhi verdi e incredibilmente profondi.
- “Scusa, non dovevo fare quella domanda. Perché fai così?”, le domandò, continuando a evitare il suo sguardo, “Non penso di piacerti sul serio!”.
Rebecca sorrise, sganciò gli ultimi due bottoni e, togliendo la giacca, mise in mostra il seno prosperoso.
- “Ti piacciono?”
Effettivamente, gli piacevano. Provò l’irresistibile impulso di allungare le mani e tastarne, per la prima volta nella sua vita, la consistenza. Sentì il cazzo indurirsi sotto le mutande. Deglutì nuovamente, quasi gli parve di ingoiare sabbia, e per poco non svenne per la fitta alla tempia.
Le lampade si spensero di colpo, tutte tranne una, quella alle spalle della ragazza. Rebecca portò le dita alle labbra e gli intimò, con un gesto, di fare silenzio. Poi accadde qualcosa di insolito, qualcosa che gli fece dubitare della sua sanità mentale o, quantomeno, di trovarsi nella vita reale.
La voce della ragazza divenne fredda e gorgogliante, quasi non appartenesse a lei. Continuò a bisbigliare la stessa parola incomprensibile e a ripetere lo stesso movimento, la versione animata di un giradischi inceppato. Abbandonò la mano sul bancone e poi, di scatto, la riportò alle labbra. Guardò Marco con aria supplichevole. Abbassò nuovamente la mano per poi portarla di nuovo alla bocca, fulminea. Ed ecco ancora lo sguardo supplichevole e spaventato e quella parola incomprensibile gorgogliata in un sibilo.
Marco chiuse gli occhi, canticchiò tra sé e sé la filastrocca che era solito ripetersi nei momenti di panico e si picchiettò la gamba con il dito, per sette volte. Tutto questo solitamente lo calmava e infatti, quando riaprì gli occhi, notò che la stanza era nuovamente illuminata come prima e che Rebecca era tornata a parlare e comportarsi come una persona normale.
Era ancora di fronte a lui, a seno scoperto. Girò attorno al grande bancone e gli andò incontro, avvicinandoglisi furtiva e silenziosa, fiera. Era alta e leggiadra. Lo baciò sulle labbra, premendogli il seno contro il petto. In un riflesso condizionato, l’ingegnere le appoggiò goffamente le braccia sulla schiena e la cinse in un abbraccio impacciato. Quando la ragazza si separò da lui, lasciandogli un rivoletto di saliva lungo il mento, le sue mani ormai fuori dal suo controllo le planarono sul seno e iniziarono a stuzzicare i capezzoli già tumidi.
Si protese in avanti, bramoso di assaggiare quei piccoli doni, quando un colpo di tosse interruppe la magia del momento. Si voltò di scatto; una donna sulla quarantina stava osservando la scena, sdegnata.
Rebecca si scusò, prese immediatamente la chiave e la porse al ragazzo. Dopo averla afferrata timidamente dalle sue mani, Marco si diresse silenziosamente verso le scale. Un paio di secondi e pochi passi dopo, si voltò per osservare la receptionist un’altra volta.
Le due donne non erano più lì. La luce sfarfallò e, dopo aver sospirato, Marco iniziò a salire le scale che l’avrebbero condotto alla camera 17.
A sexy horror story
1.
La voce del tassista afferrò il giovane ingegnere per il colletto e lo tirò fuori dal pantano che era diventato quell’orrendo sogno. Quando si era addormentato?
Pochi dettagli confusi, residui maciullati di quell’illusione, gli attraversarono in un istante gli occhi annebbiati, per poi essere scacciati prontamente dall’improvvisa lucidità .
Marco allontanò di scatto la testa dal finestrino, come se questo fosse un orribile serpente che, da un momento all’altro, avrebbe potuto sferrare il suo micidiale e fulmineo attacco. Attraverso le righe lasciate dalle gocce di pioggia sul vetro, osservò la struttura nera scagliarsi contro la notte; si ergeva imponente come un patriarca che vegliava su una progenie non ancora nata: l’unico edificio del circondario. Il ragazzo pagò la corsa, abbandonò il tepore di quel rifugio temporaneo e s’addentrò nel freddo e nel buio, percorrendo lentamente il vialetto che l’avrebbe condotto all’ingresso dell’Hotel Mirafiori.
Guardò in alto, ammirando la costruzione. Da alcune finestre proveniva il bagliore di fioche luci, troppo poche, si disse, per un albergo di questa importanza. L’insegna al neon ronzava, inveendo e minacciando di spegnersi del tutto, una notte o l’altra. Richiuse l’ombrello, accertandosi di rimuovere le residue gocce di pioggia, e suonò il campanello per farsi aprire. Una debole scarica elettrica gli diede il permesso di addentrarsi nell’albergo.
Non era come l’aveva visto nel sito web: un pessimo odore di muffa e aria viziata inondava la hall, la tappezzeria alle pareti era logora e persino bucata in alcuni punti. Poche appliques, uniche sopravvissute in mezzo ai cadaveri delle compagne, illuminavano di biondo quella grande sala. Marco coprì a rapidi passi la distanza che lo separava dal bancone della reception, al momento priva del suo custode. Picchiò il dito contro l’ormai vetusto, seppur classico, campanellino, ma restò solo. Sospirò, sfilò gli occhiali, chiuse gli occhi per un attimo e li massaggiò, cercando di attenuare l’emicrania che era esplosa, come una mina, dopo aver attraversato la soglia dell’hotel.
- “Quindi? Chi sei?”
Quando era comparsa?
Di fronte a lui c’era una ragazza, non poteva avere più di venticinque anni. La targhetta appuntata sul petto gli comunicò il suo nome: Rebecca.
- “Signorina Rebecca…”
- “Chiamami Becca. Sei Marco, l’ingegnere, vero?”
Il ragazzo biasciò qualche parola, spiazzato, poi si rese conto che forse quella sera aspettavano solo lui. Come potevano sapere, altrimenti, chi fosse?
- “Sì, sono qui per una trasferta di lavoro e…”
- “Sappiamo già tutto!” replicò la ragazza.
Aprì un grosso libro e sfogliò le pagine. Marco la guardò, studiandone i movimenti felini e le lunghe dita affusolate. Si soffermò per un po’ su dettagli più carnali; ne ammirò il seno abbondante, le labbra carnose prive di rossetto e il collo sottile, rovinato da una lunga cicatrice che bivaccava perpendicolarmente alla sua base. Becca dovette accorgersi dello sguardo del ragazzo, perché si affrettò ad abbottonarsi il colletto, sorridendo. Le porse le sue scuse, ma lei gli disse di non preoccuparsi. La receptionist si voltò per recuperare la chiave della stanza, Marco quasi giurò di averla vista sfarfallare per un attimo e sparire dalla scena. Diede la colpa all’emicrania e, recuperati i tiranti che lo tenevano ancorato alla realtà , afferrò la chiave che Rebecca gli stava porgendo.
- “Ci sono tanti ospiti, stasera?”
- “I soliti… perché? Sei interessato a conoscere qualcuno… o qualcuna?” ammiccò, facendogli l’occhiolino e portando pollice e indice a slacciare l’ultimo bottone della blusa.
Marco fissò quel movimento, quasi ipnotizzato, e seguì con interesse quelli successivi. Il bottone poco più in alto imitò il compagno, quello successivo s’accordò con l’asola per una separazione consensuale. L’ombelico fece capolino, piccolo e poco profondo alla base di quello che sembrava essere un ventre snello e appena muscoloso.
- “Continuo? Ti vedo agitato.”
Effettivamente, era arrossito. Deglutì il nulla un paio di volte, la salivazione azzerata e la bocca secca gli impedirono di irrorare la gola.
- “N… no… ecco… ecco” balbettò, “… è che io non ho mai… cioè, non ho mai visto dal vivo…”
- “Lo so, sei vergine!”, affermò la receptionist.
- “Come lo sai?”
Sul serio aveva posto quella domanda? Il suo aspetto quasi parlava per lui: aveva ventisette anni, ma ne mostrava almeno una decina in piĂą. Era stempiato, grassoccio e flaccido. Soprattutto, era molto insicuro.
Si sfilò gli occhiali e iniziò a pulirli con un fazzoletto, evitando di guardare la ragazza negli occhi verdi e incredibilmente profondi.
- “Scusa, non dovevo fare quella domanda. Perché fai così?”, le domandò, continuando a evitare il suo sguardo, “Non penso di piacerti sul serio!”.
Rebecca sorrise, sganciò gli ultimi due bottoni e, togliendo la giacca, mise in mostra il seno prosperoso.
- “Ti piacciono?”
Effettivamente, gli piacevano. Provò l’irresistibile impulso di allungare le mani e tastarne, per la prima volta nella sua vita, la consistenza. Sentì il cazzo indurirsi sotto le mutande. Deglutì nuovamente, quasi gli parve di ingoiare sabbia, e per poco non svenne per la fitta alla tempia.
Le lampade si spensero di colpo, tutte tranne una, quella alle spalle della ragazza. Rebecca portò le dita alle labbra e gli intimò, con un gesto, di fare silenzio. Poi accadde qualcosa di insolito, qualcosa che gli fece dubitare della sua sanità mentale o, quantomeno, di trovarsi nella vita reale.
La voce della ragazza divenne fredda e gorgogliante, quasi non appartenesse a lei. Continuò a bisbigliare la stessa parola incomprensibile e a ripetere lo stesso movimento, la versione animata di un giradischi inceppato. Abbandonò la mano sul bancone e poi, di scatto, la riportò alle labbra. Guardò Marco con aria supplichevole. Abbassò nuovamente la mano per poi portarla di nuovo alla bocca, fulminea. Ed ecco ancora lo sguardo supplichevole e spaventato e quella parola incomprensibile gorgogliata in un sibilo.
Marco chiuse gli occhi, canticchiò tra sé e sé la filastrocca che era solito ripetersi nei momenti di panico e si picchiettò la gamba con il dito, per sette volte. Tutto questo solitamente lo calmava e infatti, quando riaprì gli occhi, notò che la stanza era nuovamente illuminata come prima e che Rebecca era tornata a parlare e comportarsi come una persona normale.
Era ancora di fronte a lui, a seno scoperto. Girò attorno al grande bancone e gli andò incontro, avvicinandoglisi furtiva e silenziosa, fiera. Era alta e leggiadra. Lo baciò sulle labbra, premendogli il seno contro il petto. In un riflesso condizionato, l’ingegnere le appoggiò goffamente le braccia sulla schiena e la cinse in un abbraccio impacciato. Quando la ragazza si separò da lui, lasciandogli un rivoletto di saliva lungo il mento, le sue mani ormai fuori dal suo controllo le planarono sul seno e iniziarono a stuzzicare i capezzoli già tumidi.
Si protese in avanti, bramoso di assaggiare quei piccoli doni, quando un colpo di tosse interruppe la magia del momento. Si voltò di scatto; una donna sulla quarantina stava osservando la scena, sdegnata.
Rebecca si scusò, prese immediatamente la chiave e la porse al ragazzo. Dopo averla afferrata timidamente dalle sue mani, Marco si diresse silenziosamente verso le scale. Un paio di secondi e pochi passi dopo, si voltò per osservare la receptionist un’altra volta.
Le due donne non erano più lì. La luce sfarfallò e, dopo aver sospirato, Marco iniziò a salire le scale che l’avrebbero condotto alla camera 17.
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